C’è qualcosa di profondamente magnetico nell’entrare in un luogo abbandonato. Il silenzio ha un suono, fatto di polvere che si deposita, di legno che scricchiola sotto i passi, di vento che si insinua attraverso finestre rotte. È come varcare una soglia temporale, dove il passato non è del tutto scomparso, ma rimane sospeso tra le macerie. È anche in questo spazio che la mia fotografia prende vita.

L’avventura e l’istinto dell’esploratore

Essere un fotografo sul campo non è solo questione di tecnica, ma di predisposizione mentale. Ogni scatto è il risultato di un dialogo silenzioso con lo spazio, un’esplorazione che richiede, ancor prima che curiosità, rispetto. Rispetto per ciò che è stato e per ciò che resta, per i frammenti di vite che un tempo hanno abitato quei luoghi, per il respiro della polvere e del tempo che li avvolge.

Il grande Sebastião Salgado ha sempre parlato della fotografia come di un atto di immersione totale, un viaggio non solo nello spazio, ma anche nella propria percezione. E io non potrei essere più d’accordo. Quando varco la soglia di un edificio in rovina, non sto semplicemente cercando una buona inquadratura. Sto cercando di ascoltare il luogo, di lasciargli il tempo di raccontarsi, di farmi guidare dai dettagli: una porta socchiusa, una finestra spalancata verso il cielo, un affresco sbiadito che trattiene ancora il respiro del passato.

Ci sono momenti in cui la macchina fotografica resta appesa al collo, inattiva. Momenti in cui la bellezza del luogo mi sopraffa, mi paralizza. Non so quante volte mi sia successo, soprattutto in certi spazi in cui il tempo sembra aver deciso di restare immobile, sospeso tra il decadimento e la rinascita. Mi capita di fermarmi, di respirare l’aria intrisa di umidità e storia, e semplicemente guardare. Non scattare, non comporre, non pensare alla fotografia—solo osservare, assorbire. Perché in certi momenti la fotografia non è un atto, ma una condizione. Non è un clic, ma una presenza.

E forse è proprio in questi attimi che nasce la fotografia più autentica. Quella che non si misura in megapixel o in dettagli nitidissimi, ma nella capacità di trasmettere un’emozione reale, profonda, viscerale. La fotografia come testimone di uno stato d’animo, di un incontro tra il fotografo e il soggetto, che in questo caso non è una persona, ma un luogo che vive ancora, anche se nessuno lo abita più.

La luce come pennello, l’ombra come inchiostro

Riguardando le mie fotografie, mi rendo conto che la luce non è solo un dettaglio tecnico, ma il vero architetto invisibile dello spazio. È lei che decide cosa mostrare e cosa nascondere, cosa far emergere e cosa lasciare nell’oblio delle ombre. È un elemento drammaturgico, una narratrice silenziosa che scolpisce ogni superficie, rivelando le trame nascoste del tempo.

La luce non è mai neutra. Almeno per me. Io creco che abbia un peso emotivo importante, una sua volontà. In alcuni scatti si insinua delicata, come un sussurro che accarezza le pareti rovinate; in altri irrompe con violenza, tagliando l’aria con lame dorate, come se il sole stesso cercasse disperatamente di riconquistare quei luoghi dimenticati. È un ultimo respiro, una testimonianza luminosa che prova a sopravvivere nel silenzio della rovina.

Edward Hopper ha sempre giocato con la luce e con il vuoto, creando scenari in cui l’assenza diventa presenza, dove ogni ombra sembra trattenere una storia non detta. mi rendo conto che, anche se inconsciamente, nei miei scatti cerco lo stesso senso di sospensione, ma in un contesto in cui il tempo ha già lasciato la sua impronta indelebile. Qui non c’è attesa, ma memoria. Non c’è più la presenza umana, ma la sua eco. I muri parlano ancora, li sento…i rumore delle finestre sussurra storie di un passato che non si arrende. Ma che, inesorabilmente, dovrà farlo.

Forse è questo che mi affascina: la luce come ultimo testimone di un’epoca passata, che illumina i dettagli come per fermarli prima che svaniscano del tutto. È una lotta silenziosa tra il chiarore e l’ombra, tra il ricordo e l’oblio. E io, con la mia fidata fotocamera, cerco solo di catturare questo fragile equilibrio, prima che il sole tramonti anche su queste rovine.

Post-produzione: tra realismo e visione onirica

Lavorare sulle immagini in post-produzione non è un atto di correzione, ma di trasformazione. È qui che la fotografia smette di essere solo una registrazione del reale e diventa espressione artistica, visione, racconto. Nel mio personalissimo approccio, non si tratta di aggiungere, né di togliere, ma di rivelare — di portare alla luce ciò che l’occhio ha percepito, ma che l’obiettivo da solo non può restituire.

Ansel Adams diceva che lo scatto è la partitura, ma il lavoro in camera oscura (ora camera chiara) è l’esecuzione musicale. Credo avesse proprio ragione… Ogni scatto è uno spartito incompleto, un’idea ancora grezza che deve essere affinata, amplificata, resa armoniosa. In post-produzione, non cambio la realtà, ma la interpreto, la plasmo per far emergere l’anima nascosta di ogni scena. Esalto i dettagli, perché in essi si nasconde la storia; spingo i contrasti, perché la luce e l’ombra sono il linguaggio primordiale dell’immagine; porto fuori la drammaticità delle texture e dei colori, perché è in quelle crepe, in quelle sfumature sospese, che si nasconde la voce del tempo. 

I miei scatti non sono reportage puri—non vogliono essere una fredda documentazione. Sono interpretazioni visive, visioni che oscillano tra il reale e l’onirico, tra la memoria e l’immaginazione. Così come un pittore non si limita a riprodurre ciò che vede, ma lo trasforma in emozione, in narrazione, anch’io cerco di dipingere con la luce e con l’elaborazione.

C’è qualcosa di quasi alchemico in questo processo. Si parte da un’immagine grezza e si lavora su di essa come uno scultore lavora il marmo (facendo decisamente meno fatica… :)), lasciando emergere la forma già presente nella pietra. Non è un semplice miglioramento tecnico, ma un atto di interpretazione profonda, che restituisce alla fotografia tutta la sua potenza evocativa. Perché alla fine, una buona fotografia non è solo ciò che si vede, ma ciò che si sente.

Lettura del portfolio: frammenti di una visione

Nei miei ultimi scatti, la decadenza architettonica incontra la rinascita naturale. Travi spezzate e finestre vuote si alternano a piante rampicanti che invadono gli spazi, come se la natura stesse riscrivendo la storia con il suo alfabeto. Ogni fotografia è una testimonianza di questa dialettica tra costruzione e distruzione, tra presenza e assenza.

  • Gli interni crollati, con le travi spezzate che puntano in tutte le direzioni, creano composizioni quasi caotiche, ma al tempo stesso equilibrate. Il disordine diventa armonia.
  • Gli scorci verso il cielo, con la vegetazione che prende il sopravvento, richiamano il Romanticismo di Caspar David Friedrich: la natura come forza inarrestabile, la rovina come bellezza malinconica.
  • I dettagli architettonici decorati ma decadenti, con affreschi sbiaditi e porte sgangherate, parlano di un passato di opulenza ora ridotto a scheletro estetico.

Ogni scatto è un pezzo di un puzzle emotivo. Non fotografo solo per documentare, ma per evocare sensazioni, per creare connessioni con chi osserva.

Oltre lo scatto: il perché della fotografia

Questi luoghi, queste rovine, non sono solo macerie. Sono musei a cielo aperto, custodi di storie che nessuno ha mai scritto, di voci che risuonano solo nelle crepe dei muri e nelle ombre allungate dal sole morente. Sono tele immense, spesso immaginarie, su cui il tempo ha dipinto il suo capolavoro con pennellate di polvere, crepe e muschio. Sono scenografie sospese tra il passato e il futuro, tra la memoria e la storia.

Ogni finestra, ogni trave crollata, ogni scheggia di luce filtrata tra le macerie è un frammento di un racconto ora incompiuto. Un luogo abbandonato non è mai davvero vuoto: trattiene il respiro di chi lo ha vissuto, l’eco dei passi che non risuonano più, l’impronta del tempo che lo ha consumato e trasformato.

E io? Io sono solo un testimone.
Un viandante con una fotocamera, un esploratore della luce e della materia, un narratore senza voce che lascia che siano le immagini a parlare. Non fotografo solo quello che vedo, ma quello che sento, quello che immagino, quello che il luogo stesso mi sussurra tra le ombre e la polvere.

Forse, in fondo, il mio compito è proprio questo: fermare l’ultimo sussurro di questi luoghi prima che il vento lo porti via.

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