Computer, smartphone, tablet, intelligenza artificiale e la tecnologia rischiano di atrofizzare il pensiero e renderlo piatto? La tecnologia ha il potere di isolarci? La tecnologia atrofizza la mente? Siamo davvero così soli come cercano di dimostrare alcuni studi? O ci stiamo, in realtà, allontanando da noi stessi? Siamo sicuri che, invece, non riusciamo più ad isolarci e a restare soli con noi stessi? 

Come dice lo zio Ben Parker, “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”. La responsabilità data dal potere della tecnologia consiste nel costruirsi un pensiero critico sano e di buon senso, utilizzando tutti i mezzi a disposizione, dal racconto del nonno fino alla ricerca su internet e ritorno. 

La mia è una di quelle generazioni di mezzo piuttosto complicate ma, pensandoci bene, tutti hanno avuto il loro momento di passaggio e tutte le generazioni sono state a modo loro di passaggio e complicate. C’è chi ne coglie l’essenza, e si gusta l’importanza di appartenere a questo passaggio, a questo traghettare da una momento storico ad un altro, e quindi esiste pienamente, oppure, come tanti, vive e basta, lasciandosi spazzare via come un detrito da un fiume in piena. Occuparsi di informatica è un lavoro strano. È talmente freddo e impersonale in apparenza che diventa, senza nemmeno che tu te ne accorga, qualcosa del quale non si può fare a meno. E in effetti è così. Dover far “funzionare tutto” (perché di questo si tratta) è una responsabilità enorme, e non esiste un campo dove l’informatica non abbia un suo impiego. Ormai è la matita dei nostri giorni. Immaginare un mondo senza il supporto informatico sarebbe impossibile, se non drammatico.

Credo che uno degli aspetti più fastidiosi per chi vive in modo negativo questa rivoluzione, è il fatto che i tempi di apprendimento sono calati a dismisura. Ma questo è fisiologico. Non possiamo pretendere che per arrivare a certi risultati sia necessario impiegare lo stesso tempo che impiegavamo anche solo quindici o venti anni fa. Con la visualizzazione di un video su YouTube puoi imparare a sostituire in pochi minuti un componente di un qualsiasi oggetto, senza necessariamente conoscere approfonditamente quell’oggetto, rendendolo funzionale ed operativo immediatamente. È una rivoluzione industriale senza precedenti! Puoi imparare una canzone, scrivere, sceneggiare e realizzare un corto, tenere dietro ad un giardino con successo. È straordinario! Ma anche pericoloso. 

Ora è così, se ne hai le capacità e la voglia, fallo! Puoi farcela. C’è un mondo lì fuori che dice: “Ecco, qui c’è tutto. Vai e fatti venire delle idee, possibilmente buone”. Ma tutto questo crea anche un livello di frustrazione che non conoscevamo. Oltre ad una concorrenza che si è allargata e continuerà a farlo senza fermarsi più, si è aggiunta la sindrome del mi piace. Una sindrome tutta nuova e nata da quando sentiamo la necessità di avere conferme costanti anche, e soprattutto, sul web. Il like su una foto o ad un post, un commento, un apprezzamento o anche una critica, purché immediata, è una conferma pronta e confezionata che non costa nulla, è lì, alla portata di un click o di una ditata. Apparentemente un gesto innocuo. 

LA TECNOLOGIA ATROFIZZA LA MENTE?

Quello che rappresenta un profilo virtuale è in realtà un prolungamento di ciò che siamo nella vita analogica. Non è un concetto così scontato e banale. Il profilo virtuale ci ha resi personaggi pubblici. Ma prima non lo eravamo. Il concetto di social network va ben oltre i confini del “mi piace” o del “retweet”, e stiamo facendo fatica a gestire il fallimento del personaggio pubblico che virtualmente si è venuto a creare ma che, nella realtà, non esiste. La tendenza iperbolica che ha per natura l’uomo, ha la sua espressione più forte e dirompente proprio grazie a questi strumenti che ci permettono di fare le star per una stretta cerchia di conoscenti e per un breve lasso di tempo, anche se sulla carta (virtuale ovviamente) abbiamo quattro o cinquemila contatti e siamo on line ventiquattro ore su ventiquattro.

Abbiamo qualche migliaio di contatti, abbiamo foto e pensieri in giro per la rete e una manciata più o meno cospicua di condivisioni e “mi piace”. On line accettiamo condizioni di comunicazione nuove, spesso al limite della decenza. Una maleducazione sotterranea 2.0 del tutto ingiustificata. Sulla rete siamo casinari, key account manager pronti per l’aperitivo più cool del momento nel locale più trendy con “la bella gente” più fica del quartiere. Siamo i “simpa della cumpa“, ma le persone per strada non gridano ai quattro venti “Mi piaciiii!” o “Sei un grandeeeee!” o “Complimenti, che splendido lato B che hai”. Anzi, viviamo nell’anonimato più desolante e siamo pure schivi. Ci sta che ci sentiamo confusi. 🙂 

Forse è un gran casino, ammettiamolo, ma possiamo uscirne…o meglio, gestirla. 

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