#179. FARE VUOL DIRE RISCHIARE
Fare informatica vuol dire rischiare.
Sono un informatico – ormai è un’informazione consolidata direi – come tanti nel mondo, e come molti colleghi, credo nella tecnologia, nell’avanzata dei byte, nei milioni di colori, nel digitale. Ma so anche che computer, smartphone, tablet e tutte gli altri magici ammennicoli, rischiano di atrofizzare il pensiero e renderlo piatto. La tecnologia ha il potere di isolarci. L’accesso alle risorse, la possibilità di comprare on line e di informarsi più o meno in tempo reale, è una conquista importante, rivoluzionaria ma, per tutto ciò che viviamo, la verità sta sempre in mezzo. Come dice Ben Parker (lo zio di Spiderman), “da un grande potere derivano grandi responsabilità”. E la responsabilità data da quel potere consiste nel costruirsi un pensiero critico sano e di buon senso, utilizzando tutti i mezzi a disposizione, dal racconto del nonno fino alla ricerca su internet.
La mia è una di quelle generazioni di mezzo piuttosto complicate, ma pensandoci bene, tutti hanno avuto il loro momento di passaggio e tutte le generazioni sono state a modo loro di passaggio e complicate. C’è chi ne coglie l’essenza, e si gusta l’importanza di appartenere a questo passaggio, a questo traghettare da una momento storico ad un altro e quindi esiste pienamente come gli hippie, oppure, come tanti – forse troppi – si vive addosso e basta, e si lascia spazzare via come da un fiume in piena. Occuparsi di informatica è un lavoro strano. È talmente freddo e impersonale in apparenza che diventa, senza nemmeno che tu te ne accorga, qualcosa del quale non si può fare a meno. E in effetti è così. Dover cercare di fare “funzionare tutto” (perché adesso si tratta di questo) è una responsabilità enorme e non esiste un campo dove l’informatica non abbia un suo impiego. Ormai è la matita dei nostri giorni. Immaginare un mondo senza il supporto informatico, per tanti di noi, sarebbe impossibile, drammatico.
Spesso mi sono ritrovato a dover fare attività delle quali non sapevo nulla, per fare dovevo rischiare…qualche volta ho toppato, poi ho imparato e me la sono cavata. Ho rischiato, quasi sempre e dubito che smetterò di farlo. Solo facendo ciò che non siamo in grado di fare possiamo conoscere, veramente, i nostri limiti.
Ho incrociato tutti i mercati, da quello pubblico a quello finanziario, dalla produzione di pizza surgelata all’ingrosso, all’industria manifatturiera, passando per il fashion, la micro impresa artigianale e l’arte. E’ stata una fortuna enorme. Ho tenuto corsi di ogni livello, dall’alfabetizzazione informatica per gli anziani alla sicurezza informatica per l’ONU. Un ventaglio tanto ampio di umanità che mi ha aperto a tal punto la mente che ora non potrei mai più richiuderla. E tutto questo grazie, anche, alla tecnologia.
Ma arrivi ad un punto in cui il bagaglio tecnico rischia di offuscarti la mente e di limitarti la visione; e io invece amo gli spazi aperti, quasi sconfinati. Amo la sensazione di paura che si prova davanti all’infinito. Mi ridimensiona. Cercare stimoli, gioie, esperienze in altre attività ti permette di il ridimensionamento. Ti riporta ad uno stato di “dannazione” che sprona e ci fa dire “ok, non siamo onnipotenti”. Io riparto sempre da zero, da qualcosa di nuovo, inesplorato.
Keypoint: chi “fa” rischia…insomma, gioca. In fondo quando giochiamo facciamo esattamente quello. Rischiamo…di perdere o di vincere. È un gioco.