La legge prevede che la retribuzione di lavora in SMART WORK non possa essere mai inferiore a quella di chi lavora in sede. Ma tra straordinari, buoni pasto, costi della postazione e rischi per la progressione di carriera, sono molte le voci che possono fare la differenza.
Uno sguardo alla legge
La legge dice infatti chiaramente che il lavoratore “che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto a un trattamento economico e normativo non inferiore a quello riconosciuto ai lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda”.
Si tratta della legge 81 del 2017, quella cioè che regola lo smart working, definizione tutta italiana che erroneamente è stata utilizzata nel periodo pandemico per identificare l’home working. Di fatto, invece, si riferisce al lavoro svolto in parte in presenza e in parte da remoto, basato su un accordo volontario, senza l’obbligo di timbrare cartellini, focalizzato sul raggiungimento di obiettivi e risultati.
Una volta che la fase di emergenza “dovrebbe” chiudersi – la data è quella del 31 marzo – la domanda che sia datori che lavoratori si fanno è come mettere a frutto quello che hanno imparato, loro malgrado, durante la fase di lockdown. Ma se si parla molto, e giustamente, di concetti come diritto alla disconnessione, fasce di reperibilità o controlli a distanza, ci sono aspetti secondari, ma non marginali, che incidono sulla retribuzione, e che dunque possono anche creare differenze tra chi lavora in presenza e chi lo fa da remoto.
“Stiamo attenti che lo smart working non si trasformi in un tentativo di riduzione dei costi da parte dell’azienda. Qualcuno ci ha provato, dobbiamo valutare con attenzione gli abusi“, è l’allarme lanciato da Tiziana Bocchi, Uil, nel corso di un’audizione alla Camera.
Le scelte
Nulla a che fare con scelte come quella di Google. Il colosso americano, che ha 135 mila dipendenti, ha messo a punto una piattaforma, Work location tool, per calcolare la retribuzione per il lavoro a distanza. Dunque, chi per esempio vive a un’ora da New York, verrebbe pagato circa il 15% in meno. Ma si tratta di un calcolo fondamentalmente basato sul costo della vita del luogo in cui il dipendente sceglie di lavorare e, come si diceva, questo è un approccio che in Italia è impossibile per legge.
A fare molto rumore, poi, è stata la proposta di Deutsche Bank che prevedeva una tassazione extra del 5% su chi, grazie al lavoro da remoto, ha potuto continuare a operare nonostante la pandemia (!). E questo è il ragionamento per aiutare coloro che durante l’emergenza sanitaria hanno perso il lavoro.
Come se la questione riguardasse solo i dipendenti e non le aziende, come se le società che grazie all’home working hanno potuto evitare di fermarsi, non ne avessero tratto un guadagno. Già, perché strettamente collegato a questo aspetto è il tema della produttività e dei risparmi.
Partiamo dai numeri.
Secondo le stime dell’Osservatorio ‘Smart working’ della School of management del Politecnico di Milano, nel 2019 erano solo 570mila i dipendenti italiani che avevano sperimentato questa forma di organizzazione del lavoro.
Con il primo lockdown sono saliti a quasi 7 milioni in pochi mesi, per poi stabilizzarsi a circa 5 milioni. E possibile quantificare i vantaggi, anche in termini economici, per una parte e per l’altra? Ci ha provato proprio il Politecnico di Milano, con1e spiega il responsabile scientifico dell’Osservatorio, il professor Mariano Corso.
“Per quel che riguarda le in1prese, i vantaggi sono dovuti alla riduzione dei costi, a cominciare da quelli per gli immobili. In esperienze di smart working partite già prima della pandemia – spiega – abbiamo riduzioni tra il 30 e il 50% degli spazi dedicati agli uffici, con impatti significativi sui costi“. Poi ci sono, per esempio, i risparmi sulle trasferte. Ma c’è una voce che secondo Corso è la più importante di tutte: l’aumento di produttività.
“C’è un dato del Word economie forum, sicuramente molto autorevole, che si riferisce all’impatto sull’economia americana e parla di 4,6% di aumento della produttività. Sull’Italia, come osservatorio, basandoci su casi specifici, abbiamo dati tra il 10 e il 20% in più di produttività aziendale. Parliamo soprattutto di aziende di servizio in cui lo smart working riguarda una percentuale di lavoratori alta“.
I dipendenti, invece, risparmiano soprattutto su tempi e costi di trasferimento da casa alla sede di lavoro. Abbiamo quantificato i vantaggi medi. Facendo un calcolo basato su due soli giorni di lavoro a distanza a settimana, il solo fatto di evitare il commuting consente al dipendente un risparmio annuo attorno ai mille euro e di circa 100 ore”, spiega ancora il responsabile dell’Osservatorio. Si può dire altrettanto per gli statali?
Il settore pubblico e privato
Più volte il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, ha parlato di interruzione di pubblici servizi preannunciando un ritorno in presenza dei dipendenti ben prima del 31 dicembre.
Frasi che hanno suscitato molte polemiche, anche perché la pubblica amministrazione è tante cose. “E’ come chiedere se la frutta quest’anno è buona. Stiamo parlando delle mele, delle pere o di altro? Ci sono una serie di enti, penso a Mef, Inail, Inps o Istat, che hanno avuto una fortissima percentuale di smart working, in cui l’impatto, anche misurato sulla produttività dei processi, è stato positivissimo. Mentre, per esempio, nella giustizia i procedimenti sono rimasti bloccati per mesi“, sottolinea ancora Corso.
D’altra parte, per la pubblica amministrazione è previsto uno strumento preciso, i Pola – ossia i piani organizzativi del lavoro agile – che dovranno definire misure, requisiti tecnologici, percorsi formativi e quant’altro per le amministrazioni che vorranno ricorrere in misura superiore al 15% allo smart working.
Al di là della produttività
Però ci sono altre questioni legate agli stipendi. Un caso, che ha visto anche il coinvolgimento della magistratura, è quello relativo ai buoni pasto. È giusto o no prevederli per chi non lavora in sede?
Secondo la giurisprudenza, non essendo un elemento della retribuzione come possono esserlo, per intenderci, la paga base o gli scatti di anzianità, non devono essere obbligatoriamente riconosciuti ai lavoratori in smart working, dunque possono essere unilateralmente revocati.
Ma tutti sanno che con i ticket spesso ci si fa la spesa. Su questo terreno le aziende, e persino la pubblica amministrazione nelle sue varie diramazioni, si sono mosse in ordine sparso. Altra questione in discussione è quella degli straordinari.
Per sua stessa natura, essendo basato sul raggiungi mento di obiettivi e non sul timbro del cartellino, nel lavoro agile non sono previsti. Un elemento che secondo alcuni studiosi crea una disparità di fondo perché se la retribuzione resta la stessa il rischio è che per chi opera da remoto la paga oraria sia inferiore rispetto a chi è in sede.
Il nodo della disconnessione
Secondo Marco Berselli, segretario First Cisl di Milano, “l’esclusione del pagamento degli straordinari dipende della mala gestione degli orari, perché è evidente che le aziende hanno pensato che erano tutti disponibili a qualsiasi ora. Questo malcostume c’era già prima della pandemia, ma ora è esploso per cui abbiamo riunioni convocate o mail inviate a orari assurdi”.
Ed ecco che il nodo degli straordinari si lega direttamente al diritto alla disconnessione o al tema delle fasce di reperibilità. ffiteriore voce di cui molto si discute è quella relativa alle spese della postazione di lavoro che spesso sono a carico del dipendente: rete wifi, corrente elettrica ma anche sedie ergonomiche o una corretta illuminazione. Aspetto che si lega a doppio filo con quello della salute (e annessi costi). Per Stefano Passerini, direttore settore Lavoro, welfare e capitale umano di Assolombarda, la soluzione a questi problemi sta nel considerare lo smart working “una modalità funzionale per entrambe le parti”.
Obiettivi dello Smart working
Questo, osserva, vuol dire che “per le attività che ben si adattano ad avere una misurazione di risultato e quindi di obiettivo, le aziende fanno bene a mantenere esattamente gli stessi trattamenti che mantengono al lavoratore presente” ma “d’altro canto, il lavoratore, nel momento in cui ne trae un beneficio in termini di qualità della vita, magari non ha interesse a puntualizzare se ha fatto mezz’ora di straordinario in più o in meno“.
A giudizio del giuslavorista Federico Seghezzi, presidente della fondazione Adapt, più che in una modifica normativa che tenga conto dell’esperienza maturata in questi mesi, la chiave di volta è nella contrattazione, sia aziendale che territoriale. “Non starei a fare un’altra legge, eviterei di regolare un istituto come se fossimo sempre in emergenza. Quindi, torniamo alla normalità, lasciamo spazio agli attori e alle parti sociali affinché trovino una soluzione adatta alle diverse realtà“.
A chiedere che l’aggiornamento della prassi venga fatto attarverso la contrattazione sono anche i sindacati. Ed è questa la modalità più utilizzata nelle aziende in cui finora è stato trovato un accordo, spesso con reciproca soddisfazione. Per il settore pubblico, la trattativa è in corso e Brunetta ha avvertito che il nuovo contratto arriverà. Per tutti gli altri, il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha auspicato il raggiungimento di un accordo quadro. In alternativa, ha detto, sarà necessaria una legge.
Tuttavia, il Parlamento si sta già muovendo. Attualmente in commissione Lavoro alla Camera sono state depositate otto proposte di legge che, tra l’altro, intervengono anche sugli aspetti legati alla retribuzione. Prevedendo, in alcuni casi, per esempio, sgravi contributivi o crediti di imposta per le dotazioni tecnologiche.
E la carriera?
MENO VISIBILE, poi, un altro rischio: quello che la scelta del lavoro agile blocchi di fatto gli avanzamenti di carriera. Tema che chiaramente è legato tanto alla questione della formazione quanto ai criteri di valutazione. “Siamo fermi ancora alla valutazione del responsabile, è anacronistico. Noi da tempo siamo a favore di una revisione del sistema valutativo che risale ai tempi di Fantozzi, ed è chiaro che adesso il tema si ponga maggiormente perché il meccanismo è connesso anche ai premi“, aggiunge Berselli di First Cisl.
Che il problema esista, lo dimostra anche il fatto che in una delle proposte di legge presentate si chieda proprio che venga esplicitata la garanzia di “eguale trattamento e pari opportunità” anche “per quanto attiene alla progressione di carriera, ai percorsi formativi e alle altre attività e iniziative del datore di lavoro per lo sviluppo della capacità professionale dei dipendenti“.
Per Rossella Mura, presidente della commissione Lavoro di Montecitorio, “nella pubblica amministrazione come nel privato dovremo costruire condizioni giuridiche e contrattuali affinché quella agile diventi modalità di lavoro strutturale. Con un positivo impatto sia sulla produttività che sulla qualità della vita. A condizioni retributive che ovviamente non devono variare“. Anzi, non si può escludere addirittura qualcosa di più. “Se si riuscisse attraverso il lavoro agile a compiere l’evoluzione culturale, dal cartellino al risultato, il lavoro produttivo potrebbe condurre ad adeguare in meglio anche le retribuzioni“.
Il mio approccio
Ora però voglio raccontarvi qualcosa di diverso: voglio parlare di “smart office”, l’ufficio mobile sempre connesso. “Ma perché ce lo devi raccontare? A noi, in fondo cosa ce ne frega?” In effetti sono domande assolutamente lecite, soprattutto nei miei confronti che non sono avvezzo nel dare consigli e, anche questa volta, non mancherò al mio credo. 🙂
La cosa interessante è che io NON voglio vendere nulla a nessuno e ciò che leggerai è la personalissima idea di “set up” e nulla di più, ma credo che, al di là dei prodotti che utilizzo e che, magari, potrei menzionare, il metodo possa essere, in qualche modo replicato o, almeno, utilizzato come spunto.
Ognuno ha il suo schema, il suo personale assetto e, una volta che questo risulta consolidato e perfettamente calzante per le nostre esigenze, diventa complesso abbandonarlo. Lavorando nell’informatica è complicato pensare di avere qualcosa di consolidato nel tempo, vista la costanza con la quale la tecnologia ci cambia le carte in tavola ogni giorno, ma da qualche anno ho trovato un buon compromesso che riesce a rendermi produttivo senza impazzire…troppo.
Smart Office
Il concetto è molto semplice ed è quello dello smart office. Nasce dalla necessità di avere con sé il proprio ufficio essendo, per buona parte della giornata, uno.
Ma cos’è, quindi, lo smart working? Secondo l’osservatorio del politecnico di Milano è “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati.”
Come si evince chiaramente dalla definizione dell’Ateneo Milanese, i dettami dello smart working sono legati alla figura del dipendente perché, per natura del tipo di lavoro, la restituzione di cui si fa menzione, sarebbe già insita nella scelta di fare l’imprenditore e non in quella del dipendente.
Libertà? Sì, di lavorare
Sappiamo che la realtà è diversa, nessuno, da quando esiste la tecnologia, è più libero ma, proprio perché smart worker, sei più rintracciabile, disponibile e connesso. Se vai in vacanza leggi le mail, se fai un weekend ti porti il computer: ti possono chiamare in ogni momento, a qualsiasi ora. Ormai, molti dipendenti – non la maggior parte per ora – vivono come liberi professionisti e imprenditori, always on.
Cosa uso per rendermi la vita meno difficile? Partiamo dal presupposto che non disdegno tutto ciò che è offerto dal Cloud. Uso il Cloud da ben prima che si chiamasse così, ma non ritengo opportuno lasciare su un servizio cloud tutti i miei dati, per tre motivi: sicurezza, connettività, fruibilità. Fra qualche anno gli ultimi due problemi saranno del tutto marginali, quando non esistenti, ma cresceranno viepiù gli attacchi verso queste piattaforme.
Viceversa, se dovesse avere la meglio la sicurezza avremmo sicuramente dati più protetti ma meno fruibili e decisamente meno smart. Io ho deciso di avvalermi di una serie di strumenti rispondenti alle mie esigenze, al di là delle mode e degli status che, messi a lavorare sinergicamente, danno ottimi risultati.
Cosa prevede il mio “smart office”?
- Un piccolo ma potente portatile Microsoft Surface Pro. Ormai 4 anni e passa di anni di utilizzo e mai un acciacco.
- Il sistema smart write di Moleskine. Visto che mi piace scrivere a mano e, al contempo, desidero tenere i mie appunti anche in formato digitale, questa è una delle soluzioni migliori che abbia trovato fino ad ora. Funziona benino anche con il Surface, grazie alla App per Windows 10.
- Una soluzione ibrida per l’accesso ai dati. Un paio di servizi cloud (meglio diversificare) e un hard disk esterno…WiFi. Un oggetto fantastico che permette anche di fare da HotSpot personale. Lui si aggancia ad una rete WiFi e i tuoi device possono utilizzare l’HD per navigare, scaricare la posta e, naturalmente, consultare l’HD.
- Un iPhone 6 (no, non ho l’ultimo modello :)) che oltre a tutto quello che può fare, mi fa anche da HotSpot Wifi in caso di mancanza di rete pubblica.
- Una linea Flat 4G di TIM è una di backup Iliad a 120Gb/mese.
- OneNote per gli appunti. E’ un software di Microsoft poco utilizzato e pochissimo conosciuto ma di una potenza fuori dal comune. E’, per ora, il miglior software per appunti in circolazione insieme ad Evernote che, comunque credo sia qualche gradino sotto. Se non altro per la piena compatibilità con gli altri prodotti della suite Office.
- Una biro e un blocco di carta. Perché è tutto molto bello, ma se le batterie cedono…
- In caso di cedimenti…un powerbank con ricarica ibrida elettrica/energia solare.
Ecco, dopo questo lungo excursus sul mondo dello smart working, compresa la glissata personale, chiedo, tu cosa ne pensi del lavoro da remoto?