#32. CREDERE O CONOSCERE?
Gli uomini non sono disturbati da dagli eventi, ma dalla visione che ne hanno.
Secondo questo principio espresso da Epitteto, l’esperienza – in realtà – non provocherebbe alcuna reazione emotiva specifica; è invece il sistema di credenze dell’individuo a produrre la reazione. Come dire che vale di più credere che conoscere. Il tema della “reazione emotiva” è da cercare, quindi, nel modo di pensare di una persona, la cognizione che ognuno di noi ha e con la quale interpreta ciò che gli si presenta davanti.
Secondo lo psicologo Albert Ellis, la maggior parte dei problemi emotivi fosse dovuta quasi sempre ad un modo di pensare irrazionale, a tratti fuorviante e lontano dalla realtà. Secondo questo schema operativo, la nostra psiche reagirebbe in maniera negativa, tendendo a trarre conclusioni estreme e catastrofiche. Ho perso il lavoro–>non troverò mai più lavoro, ho rovinato l’auto–>non troverò mai più un veicolo del genere.
La sfida, quindi, è quella di contrastare il pensiero irrazionale con quello razionale, creando l’effetto opposto perché fondato sulla tolleranza e sull’analisi dei fatti “documentabili“. Almeno a detta dei sostenitori del comportamento razionale emotivo. Questo non vuol dire che ad ogni accadimento negativo si debba far finta di nulla o girarsi dall’altra parte schivando il problema: il pensiero razionale accetta sentimenti di frustrazione, tristezza e colpa, ma con ragionevole moderazione. Ora, dove stia la ragionevolezza è un concetto piuttosto aleatorio e ognuno di noi avrà un suo “ragionometro“, ma il concetto è chiaro: credere è una distorsione, conoscere è un dato.
Il pensiero razionale risulta equilibrato e fa bene al Sé, lascia uno spiraglio all’ottimismo, anche quando l’individuo è stremato. Conoscere, razionalmente, significa accettare ciò che è per quello che è, significa impegnarsi per cambiare ciò che non ci piace accettando, di nuovo, quelle che sono i successi, le conseguenze e gli insuccessi di un’avvenimento.
Il pensiero irrazionale crea automatismi dannosi, abitudini seriali che ci offuscano lo sguardo e obnubilano il cervello, cancellando il raziocinio e legando la nostra interpretazione (risposta) all’evento stesso. Rischiamo di condurre argomentazioni prive di lucidità, dando per scontato un livello di astrazione molto basso.
La nostra risposta emotiva dipende dal senso che attribuiamo a ciò che accade e che, a sua volta, è governato dal pensiero razionale o irrazionale. Sta a noi contestare la credenza con la conoscenza, l’irrazionale con il razionale. Mettere in discussione le nostre credenze non è semplice. E’ un processo complesso, che deve scavare all’interno di stratificazioni consolidate nel tempo: educazione, famiglia, lavoro, abitudini. Una delle difficoltà proprie del credere è che tende a perpetuarsi: nell’idea “non mi succederà mai nulla di buono” non c’è nessuna motivazione a cercare opportunità nelle quali possano capitare cose buone. La negatività chiama negatività, è un circolo difficile da superare, ma non impossibile.
Siamo noi a costruire la nostra credenza e la nostra realtà, nonostante cultura, scolarizzazione e vita sociale giochino un ruolo importante impedendoci spesso di razionalizzare il nostro pensiero. Come fare? Con l’azione, mettendo in atto un approccio attivo e allenandosi al positivo. Ogni giorno, iniziando dal piccolo, concedendosi degli spazi emotivi per ricostruire la propria autostima. Conoscendo sempre di più e “credendo” sempre di meno.
Keypoint: i migliori anni della nostra vita sono quelli in cui decidiamo che i nostri problemi sono nostri. Siamo noi a condurre il nostro destino, nessuna credenza.